Anziani e bambini, un rapporto intergenerazionale che aiuta tutti (anche gli adulti che “stanno nel mezzo”)

Quando si arriva a una certa età la stimolazione della mente vale più di ogni altra cosa.

15 gennaio 2023
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Anziani e bambini, un rapporto intergenerazionale che aiuta tutti (anche gli adulti che “stanno nel mezzo”) Anziani e bambini, un rapporto intergenerazionale che aiuta tutti (anche gli adulti che “stanno nel mezzo”)

L’attivazione della memoria, il racconto, il rivivere la propria infanzia attraverso gli occhi e le immagini di altre persone, in questo caso dei bambini, sono le basi su cui poggia il progetto intergenerazionale che viene attuato ormai da diversi anni nella Residenza Anni Azzurri Cit Turin, a Torino, in zona Borgo San Paolo.

Ne parliamo con la dottoressa Elena Giusti, psicologa e psicoterapeuta, che di questo progetto è anima e coordinatrice.

Dottoressa Giusti, com’è nata l’idea di attuare questo progetto?

«Tutto è nato grazie al contesto in cui ci troviamo, visto che condividiamo un bellissimo giardino con tre scuole di diverso ordine – materna, elementare e media – e un nido d’infanzia. Un giorno è successa una cosa bellissima, una dirigente di una di queste scuole ha bussato alla nostra porta dicendo: “Dobbiamo assolutamente far venire i bambini da voi, perché bambini e anziani devono giocare insieme, dobbiamo organizzare attività condivise…”. Per me è stato un momento di grande entusiasmo perché avevo sempre pensato, e continuo a pensare, che la casa di riposo non debba essere una struttura chiusa e che gli anziani che ci vivono devono potersi mantenere attivi, pur nei loro limiti, e per poterlo fare è importante che possano mantenere uno stretto contatto con il territorio e con tutto ciò che li circonda».

Come avete deciso di attuare il progetto nelle sue fasi iniziali e com’è successivamente progredito nel tempo?

«Abbiamo pensato di impostare i nostri incontri tra persone anziane e bambini sul gioco, ma non abbiamo voluto fermarci a quello. Abbiamo ragionato sul fatto che oggi la nostra società, soprattutto quella occidentale, dimostra spesso molta paura ad affrontare con serenità alcuni concetti come quelli di vecchiaia, malattia, morte. Un modo di pensare che si riflette tantissimo sull’educazione dei figli. Per questo ci siamo detti “portiamo i bambini piccoli dalle nostre persone anziane, spesso malate, e facciamogli capire che si tratta di una condizione del tutto naturale, di cui non si deve avere paura”. Per questo abbiamo iniziato a organizzare laboratori condivisi, intergenerazionali, con bambini e anziani affiancati nello svolgimento di lavoretti, disegni, scritture e attività di psicomotricità di vario tipo».

Ma il progetto non si è fermato lì…

 «No. Abbiamo pensato che questa poteva essere una buona occasione per affrontare un discorso di “educazione al cambiamento”, per cui abbiamo predisposto un corso di formazione per educatrici cui affidare il compito di trasmettere ai genitori dei bambini un nuovo modo di vedere le cose. L’obiettivo è stato, e lo è anche oggi, quello di far capire alle persone adulte che i bambini hanno una mente molto flessibile, che ha bisogno di sognare ma anche di vivere esperienze meno gioiose, da cui trarre molte spiegazioni a situazioni che altrimenti resterebbero non spiegate e irrisolte – come la malattia o la morte dei nonni –, rischiando di ripercuotersi a lungo nella loro testa. È molto importante che il piccolo abbia la possibilità di elaborare momenti di profonda tristezza, i cosiddetti “riti di passaggio” che non vanno omessi e devono essere affrontati perché solo così facendo si possono superare le prove che la vita ci mette di fronte».

È un progetto di sicuro utile per i bambini. Qual è, dall’altra parte, l’impatto sulle persone anziane coinvolte?

«Partiamo dal concetto che ci sia bisogno, a livello sociale, di recuperare la figura del nonno che da una parte è una figura un po’ “mitologica” e dall’altra è – quando si è più fortunati e si ha la possibilità di viverci vicino – una “risorsa” preziosa nel contesto familiare, che spesso supporta gli altri componenti in molte attività quotidiane, come per esempio quella di portare i nipotini a scuola. Detto questo, bisogna aggiungere che le persone che sono nelle nostre residenze, come tutti gli altri anziani, hanno bisogno di sentirsi utili, protagoniste attive della loro vita e di coloro che hanno al loro fianco e non solo, quindi, di essere fruitrici di attenzioni altrui. È il discorso che rientra sotto il concetto di “approccio capacitante” per cui possiamo dire che nei nostri incontri non sono i bambini che vengono a far passare il tempo in modo gioioso agli anziani, non è solo quello: il nostro è un progetto “paritario”, in cui tutti i soggetti coinvolti sono protagonisti attivi, danno e ricevono a seconda delle loro capacità e delle loro caratteristiche. È una cosa che ha un forte rispecchio culturale, per gli anziani, per i bambini e anche per gli adulti che “stanno in mezzo” che hanno la possibilità di verificare quanto sia importante creare rapporti di questo genere per i loro genitori e per i loro figli».

Ci può fare un esempio pratico di ciò che viene fatto nell’ambito di questi incontri?

«Mi viene in mente quanto abbiamo fatto poche settimane fa. È stato un incontro davvero commovente: con i bambini che sono venuti a trovarci abbiamo approfondito il discorso degli antichi mestieri. Ai bambini abbiamo chiesto di vestirsi da nonni e nonne, agli anziani abbiamo chiesto di raccontare com’era la vita di una volta, mentre venivano proiettate foto della vecchia Torino. La grande protagonista della giornata è stata una nostra ospite che da giovane era una maestra e di cui è stata raccontata la storia attraverso la lettura di quanto aveva scritto per questa occasione. Lei oggi ha qualche difficoltà a parlare, soprattutto in pubblico, ma tra una lacrima di commozione e l’altra, ha cercato di interagire per tutto il tempo raccogliendo la curiosità di tutti gli altri adulti e dei tanti bambini presenti. In un altro incontro recente abbiamo lavorato, invece, sulle emozioni, abbiamo visto un film tutti insieme e fatto un gioco sulle quattro emozioni di base: rabbia, felicità, tristezza e ribrezzo. In un altro incontro ancora, per fare un altro esempio, ci siamo concentrati sui vecchi giochi, con gli anziani a descriverli e i piccoli a riscoprirli, mentre nella bella stagione abbiamo proposto una sorta di giochi olimpici il cui momento clou è stata la gara di corsa con i sacchi, con i piccoli a fare da atleti e gli anziani a prestare il loro supporto nella preparazione dei sacchi e nello studio della strategia di gara».

Qual è la reazione delle persone ospiti della Residenza? I bambini sono visti sempre con cordialità ed entusiasmo?

«L’aspetto che più colpisce è che per gli anziani questi incontri rappresentano un’occasione di stimolazione fortissima della memoria e degli affetti. In loro si crea in pochi secondi un entusiasmo che li fa subito sorridere, ricordare, si nota una riattivazione affettiva che si trasforma in un entusiasmo contagioso. Si sentono subito coinvolti, si sentono vivi, riattivano la loro memoria e non vedono l’ora di trasferire i loro ricordi ai loro “nipotini”. Se devo riassumere l’obiettivo che ci siamo posti e che ci sembra di avere raggiunto con questo progetto direi che è quello di “motivare la vita”, che poi, a dirla tutta, è proprio quello che deve fare uno psicologo che lavora in una struttura come la nostra Residenza Anni Azzurri».

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